Giuliano Briganti

Alessio Pauciollo De Marchis

Alessio Pauciollo De Marchis
Napoli 1675 – Perugia 1752?
 
Le mura aureliane a Porta San Paolo, con la piramide Cestia
Torre medievale nella campagna romana
Due disegni a penna, inchiostro e acquarello seppia su carta, mm 300x415
 
Bibliografia: Andrea Busiri Vici, Trittico paesistico romano del 700. Paolo Anesi, Paolo Monaldi, Alessio De Marchis, Roma 1976, p. 198; pp. 202-3, figg. 209 e 210, rispettivamente.
 
Un tempo conosciute solo attraverso la “vita” di Nicola Pio, coeva all’artista ma rivelatasi inesatta nella cronologia, le notizie biografiche su Alessio De Marchis sono state chiarite grazie alla pubblicazione dei documenti prodotti dall’artista in occasione del suo matrimonio, celebrato a Urbino nel 1729 (F. Negroni, Regesto documentario, in Alessio De Marchis e la sua bottega. A cura di A. Emiliani, Bologna 1992, pp. 1-15). Grazie ai certificati parrocchiali e a una relazione dello stesso pittore, è stato possibile anticipare di ben sette anni la sua data di nascita, prima fissata al 1682, e di conseguenza il suo arrivo a Roma, dove il pittore restò, pur con brevi viaggi in Italia e in Dalmazia, dal 1683 al 1721. In quell’anno, per motivi non precisati, fu arrestato e incarcerato a Civitavecchia e poi a Castel Sant’Angelo; nell’aprile del 1728 fu liberato con una riduzione della pena grazie all’intervento del cardinale Annibale Albani. Trasferitosi a Urbino, De Marchis si dedicò al servizio della famiglia Albani, per cui aveva già lavorato a Roma, partecipando alla decorazione del palazzo gentilizio in via Bramante, che appunto nel 1729-30 veniva rinnovato da Luigi Vanvitelli. Alla committenza Albani si lega la maggior parte delle sue opere oggi conosciute, eseguite nei palazzi della famiglia nelle Marche e ora in disperse in varie raccolte private; a queste, per lo più vedute e paesaggi fantastici nati come decorazione di porte, finestre e soffitti, si aggiunge l’importante armadio da sacrestia decorato a paesaggi per l’oratorio di San Giuseppe a Urbino, anch’esso di committenza Albani (Papa Albani e le arti a Urbino e a Roma 1700-1721. Catalogo della mostra a cura di G. Cucco, Venezia 2001, pp. 248-49). Molte sue opere su tela erano citate in inventari coevi o poco più tardi, tra cui quello della collezione di Leone Pascoli (1786) che registra quattordici quadri di sua mano. Nell’ultima parte della sua attività, coadiuvata dai figli e dalla bottega, De Marchis si trasferì a Perugia dove sembra morisse nel 1752, e in ogni caso prima del 1755.
La produzione grafica dell’artista, ricostruita a partire dai primi studi di Marco Chiarini (Alessio De Marchis as a Draughtman, in “Master Drawings” V, 1967, pp. 289-91) fino al saggio di Luigi Ficacci (De Marchis disegnatore, in Alessio De Marchis e la sua bottega, cit. 1992, pp. 147-74) è sostanzialmente indipendente dalle opere dipinte, per le quali non può essere considerata preparatoria. Difficile proporre una sistemazione cronologica dei pur numerosi fogli che costituiscono il corpus dell’artista, all’interno del quale è verosimile tuttavia poter assegnare una data più alta a quelli, non numerosi, più immediatamente riconducibili a luoghi reali riprodotti con relativa fedeltà. Tra questi, alcuni disegni pubblicati da Busiri Vici (1976, cit.,figg. 205 e 206: Il tempio di Vesta; Ponte Salario) e, per l’appunto, la Piramide Cestia qui in esame.  La stessa veduta compare in un foglio nel Museo Civico di Bassano, dalla collezione di Giuseppe Riva a Padova, iscritto “Vista de la porta San Paolo e la piramide di Alessio Mais” (A. Busiri Vici cit., p. 339, DM.5.d), appena spostata nel punto di vista e priva di figure. E che il nostro disegno sia preso dal vero, sebbene rielaborato in studio con la tinteggiatura all’acquarello che ne costruisce volumi e distanze, mi pare confermato dai modesti edifici all’estrema sinistra del foglio, per l’appunto non rielaborati secondo quella che diventerà la cifra stilistica dell’autore.
Priva di riferimenti specifici la seconda veduta, che bene esemplifica lo stile di Alessio De Marchis nell’estrema libertà del tratto e nel contrasto cromatico tra zone fortemente sottolineate dalla tinteggiatura e altre lasciate bianche.
 
 
Ludovica Trezzani
 
Febbraio 2016